20 cose da leggere, guardare e ascoltare durante l’estate
Ti senti bollito e l'unica cosa che hai voglia di fare è infilare un paio di ciabatte e metterti a guardare passare le nuvole? Anche noi. Quando poi ti senti pronto ecco una lista di cose da guardare, leggere e ascoltare per ripartire.
Questa è l’ultima diretta della stagione, ci fermiamo per un po’. Nel frattempo Guido compie tre anni e fino a lunedì 17/6 c’è il 50% di sconto con il codice VIPDELCATASTO.
È giugno e non so voi, ma noi siamo completamente bolliti. Sono mesi che tiriamo come dei pazzi e ora ci sentiamo svuotati, senza idee e senza ispirazioni. Il che è un problema perché il nostro lavoro è dare idee di marketing a chi ne ha bisogno, ma adesso come adesso l’unica cosa che abbiamo voglia di fare è infilare un paio di ciabatte e metterci sdraiati a guardare passare le nuvole.
Comunque. Abbiamo preso il coraggio a quattro mani, messo insieme le ultime forze rimaste e tirato giù una lista di 20 cose da leggere, guardare e ascoltare durante l’estate. Servono a uscire dalla propria bolla, a ricaricarsi, a svuotarsi la testa, a cambiare sguardo e prospettiva e a trovare idee nuove e ispirazioni per il proprio marketing quando uno proprio non ce la fa più.
Visto che questo è un articolo davvero lungo, ecco un pratico indice. Buona lettura.
Cosa guardare con la testa fritta e zero idee per fare marketing
Potremmo darci un tono intellettuale e raccontare che quando le idee scarseggiano con Enrica ci concediamo per rigenerarci pomeriggi di letture silenziose – su carta, va da sé – e ascolti concentratissimi di musica selezionata. Oppure possiamo dire le cose come stanno: quando abbiamo la testa fritta ci buttiamo sul divano, accendiamo la TV, apriamo Netflix e andiamo avanti fino a quando non è ora di scendere a prendere tre pizze da asporto. Quindi ecco qui un po’ di serie TV da guardare con la testa fritta e zero idee per fare marketing.
👩🍳 Chef’s Table, in particolare le puntate con Francis Mallman e Jeong Kwan
Jeong Kwan nella prima puntata della terza stagione di Chef’s Table. Fonte: IMDB
La prima stagione di Chef’s Table è uscita su Netflix il 26 aprile del 2015. Mi ricordo di averla guardata con Enrica tutta d’un fiato, incredulo. Allora era una delle cose più fighe che avessi mai visto in tv: le storie, il modo di raccontarle, la produzione, la fotografia, Vivaldi ricomposto da Max Richter. La prima ispirazione arriva da qui. Si può prendere una delle cose di cui parliamo di più – il cibo, le storie che ci girano intorno – e parlarne una volta ancora lasciando un segno indelebile perché così non ne aveva mai parlato nessuno.
Cosa c’entra col marketing? C’entra tutte le volte che sento dire: «vorrei parlare di questa cosa ma l’hanno già fatto, lascio perdere». Che è una baggianata, francamente: non facciamo altro che girare intorno alla stessa manciata di storie da migliaia di anni senza stufarci. C’è chi sa prendere una di queste storie e raccontarla in modo indimenticabile, e nessuno si ferma a chiedere conto del fatto che non è nuova. Quindi non ti preoccupare se quel post sulla SEO di base l’hanno già scritto tutti. Scrivilo anche tu e preoccupati di renderti indimenticabile a sufficienza.
La seconda ispirazione sono due puntate specifiche, quella con Francis Mallman e quella con Jeong Kwan. Guardatele, non entro nei dettagli. Mallman è argentino, burbero, sta molto in Patagonia, pesca a mani nude, sotterra verdure da cuocere insieme alla brace. Kwan è un monaco buddista, vive e lavora al tempio Baekyangsa in Corea del Sud, coltiva un orto che sembra un bosco, cucina e conserva quello che raccoglie, medita. A tenerli insieme è il loro sguardo laterale, lo scarso riguardo per le cose come si fanno di solito.
Che è un invito a smettere di pensare a quello che fanno gli altri, smettere di preoccuparsi di imitare quello che fanno colleghi e concorrenti, trovare la propria identità – per quanto bizzarra possa essere – e costruirci sopra. Altrimenti poi hai voglia a lamentarti: non riesco a distinguermi dalla concorrenza. Certo che non ci riesci se passi il tempo a imitarla.
Cari amici che lavorate come consulenti e che talvolta pensate che non ci sia speranza – che i vostri clienti non applicheranno mai uno solo dei vostri consigli – sappiate che Mary è qui per noi. Il suo è un duro atto d’amore: ci dice che in effetti non c’è speranza, ma nel farlo non ci lascia soli.
Secret Shopper è il nome di una serie apparentemente innocua. Mary Portas, consulente per il commercio al dettaglio, ha speso gli ultimi 21 anni a sollevare le sorti dei negozi di abbigliamento e di lifestyle, costruendo le migliori esperienze di shopping che il Regno Unito potesse desiderare. In questa serie la vediamo all’opera come cliente nascosta. Attraverso le sue telecamere spia il servizio clienti dei negozi che si sono candidati per ricevere i suoi consigli.
Dalle telecamere esce un quadro desolante: clienti maltrattati, personale svogliato, battute di cattivo gusto. Ma Mary non si perde d’animo e grazie a gite formative, giochi di ruolo, discorsi severi ma giusti, cerca in tutti i modi di salvare questi negozi dalla bancarotta. Ma nemmeno Mary può salvare chi ha deciso di affondare.
Su Netflix ci sono quattro puntate; se alla prima vi sembra di aver già visto tutto, sappiate che siete solo all’antipasto. Non guardatela da soli e procuratevi una scatola di Kleenex.
🏩 Stay Here
«Per avere successo nel mondo degli affitti brevi bisogna offrire qualcosa in più che un posto in cui dormire», recita la sigla di Stay Here, una serie in cui Genevieve Gorder (interior designer) e Peter Lorimer (immobiliarista) vanno in giro a trasformare AirBnb di scarso successo in piccoli angoli di paradiso.
Togli gli affitti dal quadro, il principio regge per qualsiasi settore: per avere successo bisogna offrire qualcosa di più. E così mentre guardi Genevieve buttare giù un muro e Peter spiegare i principi della SEO, ti ritrovi a prendere appunti per la tua attività. Ok, tu non lavori nell’ambito dell’ospitalità, ma l’angolazione con cui si affrontano i temi della concorrenza, del pricing, del posizionamento vale anche per te. Senza contare che Peter ha un vocabolario zeppo di espressioni da copiare. Io non vedo l’ora di usare «social media moment» in una riunione di lavoro, per dirne una.
Su YouTube non ci sono solo i tutorial sulla skin care. Che comunque è importantissima
🌪 When it’s hard being a shop owner
Cominciamo col dire che tutto ciò che Fran Menses pubblica, Enrica lo guarda. Il venerdì nel suo calendario non è conosciuto come l’ultimo giorno della settimana, ma come il giorno di pubblicazione dei vlog di Frannerd, che è un’illustratrice cilena che abita a New York.
In questo video Fran racconta il dietro le quinte del suo shop su Etsy – ma potrebbe essere qualunque shop, anche non su Etsy – per dirci quali sono le difficoltà che si incontrano nella gestione quotidiana di un’attività online. Il video dura venti minuti, questi sono i temi che Fran tocca:
l’incubo di gestire i fornitori
quanti ordini in media riceve alla settimana uno shop avviato
Troppo spesso gli ecommerce vengono considerati l’alternativa gratis e veloce a un negozio su strada, ma non è così: gestire un ecommerce è un lavoro vero, impegnativo, costoso. E già che ci siamo: quanto costa un ecommerce, di preciso? La vera domanda non è quanto, ma quando.
🗝How I work with brands
Santa Lily Pebbles (YouTuber, si occupa di beauty e lifestyle) un giorno si è seduta davanti alla videocamera e ha detto: «volete sapere come entrano i soldi e come funzionano le collaborazioni con i brand? Mo’ ve lo dico per filo e per segno».
Ma l’ha detto in modo molto più elegante di così: Lily è una professionista riservata, ha un gusto minimalista e una grazia innata – ed è anche un po’ secchiona, tutti fatti che rendono questo video contemporaneamente piacevole e preciso.
Lily ha raccolto una serie di domande dai suoi follower su Instagram – che poi sono anche le persone che comprano i prodotti che lei usa o promuove – e ha risposto per chiarire, con enorme trasparenza, come funziona che gli influencer si trovano a lavorare con certi brand e non altri, perché alcuni contenuti sono contrassegnati con #AD e più in generale come funziona il suo flusso di lavoro. Nel video ci sono quattro sezioni:
Affiliate marketing: come funzionano i link che spesso vengono usati nei blog, nelle descrizioni di YouTube, negli swipe up delle storie di Instagram.
Display Ads: quanto si guadagna dalle pubblicità di Google, quelle che compaiono a schermo prima, durante e dopo i video o che precedono e seguono i post dei blog.
Partnership con i brand: questa è la grossa fetta del lavoro di un influencer; Lily qui spiega qual è il processo per cui un’azienda contatta un influencer per fargli produrre un contenuto sponsorizzato, e quanti giri fa quel contenuto prima di essere pubblicato.
PR: come funzionano i viaggi stampa, l’invio di prodotti gratuiti, i codici sconto che gli influencer elargiscono così generosamente.
🎥 Editing tips for IGTV: come trasformare i video orizzontali in video verticali
Il problema dei video verticali è che i video, di norma, non sono verticali. E che pubblicarli sulle stories o su IGTV così come sono è tremendo: quelle due enormi bande nere sono inguardabili. Quindi come si adatta un girato orizzontale ai 9:16? Te lo dice Ryan Nangle, YouTuber e video editor.
Per seguire questo video bisogna avere delle basi di video editing, poi da lì è tutta in discesa. Premesso che il modo migliore per avere dei video verticali è girarli in verticale, questo è un tutorial utile per chi si trova a pubblicare video su altre piattaforme (YouTube, Vimeo, Facebook) ma vuole promuoverli anche su Instagram, magari ritagliando una piccola anteprima per mostrarla nelle stories. Ryan ti dice come fare senza perdere le ore a ritagliare ogni singola clip.
Podcast che parlano di marketing – ma non solo – da ascoltare per ritrovare l’ispirazione e sentirsi meno soli
Enrica è espertissima di podcast che vale davvero davvero la pena ascoltare, per un sacco di tempo ne ha consigliato uno al giorno su Instagram. Poi a un certo punto ha smesso, probabilmente perché aveva ascoltato tutti i podcast che si potevano ascoltare. (No, dice che è perché il meccanismo si è rotto: a un certo punto ha smesso di ascoltare cose che voleva e al loro posto ha iniziato ad ascoltare cose che valeva la pena condividere. Ora i suoi ascolti se li tiene per sé, dice).
Un sacco di puntate le abbiamo ascoltate insieme in macchina. Una ci ha fatto venire l’idea per iniziare il nostro podcast, altre ci hanno dato idee e ispirazioni per il nostro marketing e il nostro lavoro in generale. A volte ci hanno anche fatti sentire meno soli con le nostre difficoltà: è il caso ad esempio della puntata di How I Built This di cui parliamo qui sotto.
😤 Lavorare da Casa di Audra Bertolone: 8 errori da evitare con i clienti
Audra nel suo podcast ospita interviste. Poi un giorno le è successa una cosa, ha deciso che voleva raccontarla a qualcuno, ha acceso il microfono ed è nata questa puntata diversa dal solito.
Le lezioni di marketing qui sono due. La prima è: non essere prigioniero del format che hai creato. Di solito ospiti interviste, di solito la tua newsletter è un insieme di articoli da leggere, di solito il tuo blog viene aggiornato una volta ogni 15 giorni. Ok. Ma il capo sei tu; se hai avuto un’idea diversa non devi aspettare la riunione del reparto marketing per metterla in pratica: fai che farlo, come si dice dalle nostre parti. Segui lo slancio del momento, vedi come va, metti in discussione i piani, non tarparti le ali.
La seconda lezione si impara ascoltando la puntata – che non voglio spoilerare. Mi limiterò a dire che se il comportamento del pescivendolo vi sembra incomprensibile allora dovete sapere che questo è lo stesso sentimento che proviamo noi quando ascoltando le vostre stories o leggendo i vostri post su Facebook quello che troviamo è solo una lunga sequela di lamentele.
La vita è difficile, avere un’attività in proprio è un campo minato, certi giorni vorresti solo portare il tuo CV alle Poste, i fornitori ti fanno arrabbiare? Ci dispiace, davvero. Ma in quei giorni metti via il telefono, vai a bere una birra, sfogati con i tuoi amici. Non usare i tuoi potenziali clienti come sfogatoio, perché non siamo tutti pazienti e gentili come Audra: davanti al pescivendolo la maggior parte di noi avrebbe girato i tacchi per non tornare più.
🛠️ How I Built This With Guy Raz: la puntata con James Dyson, quello degli aspirapolvere
L’abbiamo ascoltata andando al mare questa puntata, qualche anno fa, e ci ripenso spesso.
C’è James Dyson che lavora per anni al suo aspirapolvere, costruisce migliaia di prototipi, lavora in un capanno per gli attrezzi nel retro di casa sua. Sono gli anni ’80, ha tre figli, vivono con lo stipendio della moglie e con i soldi di un primo investimento. Pensavo ascoltando: la vita accade oltre il perimetro della stabilità. Lui è lì che prova a tirar fuori questo aspirapolvere diverso da tutti gli altri, ci prova per cinque anni senza alcuna sicurezza, senza sapere se poi qualcuno quell’aspirapolvere l’avrebbe voluto, prodotto, comprato.
A ispirarmi non è la cosa del genio romantico e incompreso al lavoro sul suo progetto irrealizzabile. Anzi: colpirei il genio romantico e incompreso molto volentieri sui denti. Invece sono quei cinque anni di lavoro senza certezza di successo, la banalità un po’ tutta uguale di 1825 giorni di lavoro dietro un obiettivo, guidato da un desiderio, avanti un giorno dopo l’altro, il giorno prima non così diverso da quello che viene dopo.
Mi ispirano perché sono la negazione dell’exploit, del successo che arriva nel giro di una notte, mezzo imprevisto e mezzo immeritato che chi fa marketing per sé o per i clienti desidera sempre, più o meno apertamente. Mi ispirano perché sono la negazione della ricetta, del fai-come-me, della formula magica, del segui-il-tuo-istinto e la celebrazione del culo nero che bisogna farsi, sempre. Speravi di svegliarti magicamente travolto dal successo? Nope, era uno scherzo: 1825 giorni e pedalare.
Sapete qual è il lato non raccontato degli influencer di Instagram? Quello che sta letteralmente dietro – dietro all’obiettivo, per essere precisi – e che a un certo punto è stato riassunto in una definizione: the Instagram husband.
L’Instagram husband non deve essere per forza un uomo e non deve per forza essere un marito: è una sintesi usata per indicare tutte quelle persone invisibili che scattano le foto per i profili Instagram degli influencer. Che sopportano lunghe sedute alla ricerca della posa perfetta, che cercano il momento esatto in cui il tramonto si tinge di rosa, che fermano i passanti per non rovinare la simmetria dello scatto.
Il podcast The Instagram Husband racconta che cosa fa di preciso questa generazione di fotografi. È stato creato da Jordan Joseph Ramirez, husband @daniaustin, e a ogni puntata intervista un husband diverso per chiedergli cose che tutti vorremmo sapere, a cominciare da: che cosa fai nella vita reale?
Viene fuori che questi mariti (come si poteva sospettare) sono più che treppiedi in carne e ossa. In molti casi sono i segretari delle influencer e si occupano del lato più noioso di tutta la faccenda – scartoffie, pianificazione, merchandising, organizzazione riunioni.
E così, tanto per rispondere a chi sospetta che per fare l’influencer non ci voglia nulla di speciale, ecco narrata la parte di lavoro (tanto e vero) che sta dietro a un mestiere che sembrava fatto solo di qualche scatto fortunato e di un po’ di face tuning. Nossignore, anche qui vale la regola dell’iceberg: se lo giudichi dalla punta sei male informato, perché il 90% è nascosto.
🍧 Marketing memorable spaces: la storia di come il posto più instagrammato della Terra in realtà non voleva essere fotografato
Se non vivi in una bolla hai già visto almeno una foto del Museum of Ice Cream: pareti color millenial pink, finte codette di zucchero a riempire piscine di palline per adulti, enormi orsetti gommosi da abbracciare. Non è un caso che a pochi giorni dalla sua apertura sia diventato uno dei posti più instagrammati della Terra, un punto di riferimento per chi si occupa di in-store marketing.
Questa puntata di Girlboss Radio ospita Maryellis Bunn, una delle fondatrici del Museum of Ice Cream, che racconta come è nata l’idea di questo pop-up – che è stato costruito nel 2016 in soli 18 giorni, ma dato il suo successo ora ha più di una sede fissa.
Due fatti in particolare spiccano in questa storia:
questo posto non nasce per essere fotografato: al contrario, l’idea era che questa fosse un’esperienza di immersione totale nel qui e ora – e il fatto di tirare fuori il telefono per fotografarla e condividerla porta via dal qui e ora, che è un controsenso;
il gelato è solo un pretesto: questo non è il museo del gelato, ma un punto di ritrovo per persone che hanno bisogno di uscire di casa e vivere un’esperienza positiva, edificante, piena di bellezza. Maryellis ha fatto ciò che bisognerebbe sempre fare quando si parla di marketing: individuare un bisogno, rispondere con empatia.
Cosa ascoltiamo quando abbiamo il cervello brasato dalla stanchezza e non si tira fuori un’idea decente nemmeno a piangere? Questa roba qui
Anche senza isola deserta va bene lo stesso. Ascolto uno di questi quattro album ogni volta che ho bisogno di concentrarmi e ogni volta che ho bisogno del suo opposto: di diluirmi. Se sono molto stanco, sono bloccato, sono senza idee e senza ispirazione la via di fuga è sempre stata diluirmi. Brian Eno ci riesce benissimo: mi sgretola, mi butta in aria e mi fa recuperare lucidità e prospettiva.
«Instead of shooting arrows at someone else’s target, which I’ve never been very good at, I make my own target around wherever my arrow happens to have landed. You shoot your arrow and then you paint your bulls eye around it, and therefore you have hit the target dead centre».
Glass è un altro come Eno, un musicista incredibile – Glassworks! – con un sacco di cose da insegnare. La sua intervista con Lola Fadulu uscita sull’Atlantic qualche tempo fa è pura meraviglia. Dentro ci sono un sacco di storie pazzesche, poi c’è questo passaggio qui:
I would pick up a car, usually around 5 o’clock in the afternoon, and I would drive till one or two in the morning, and I would get up early in the morning, actually to take my kids to school, because I had kids growing up in New York at the time. And sometimes I would stay up all through the night, write music, then take the kids to school. Then I would go to sleep around 8 or 9 o’clock and I would wake up around 4 o’clock and go back to the garage or wherever I was going.
Philip Glass ha iniziato a lavorare a 12 anni nel negozio di dischi del padre: «It wasn’t considered child labor. It was a family business». Ha fatto l’idraulico, traslochi, montato mobili, posato piastrelle e impianti di riscaldamento: «We learned how to do that». Negli anni ’70 guidava un taxi a New York, ci porta dentro la splendida banalità di una sua giornata: guidare la sera, scrivere musica la notte, portare i figli a scuola, dormire, ricominciare.
Poi a un certo punto gli commissionano la musica per Satyagraha e da lì in poi inizia a vivere di musica: ha 42 anni: «I was surprised it happened so quickly, actually. I expected to have a day job for the rest of my life».
💰 Seth Godin: The pricing formula (S&S)
Il primo articolo sul blog di Seth Godin è del 15 gennaio 2002, l’ultimo molto probabilmente è di oggi. Godin pubblica un articolo al giorno, fine settimana compresi, e non molla un colpo. A proposito, cercavi un’idea di marketing? Eccola qua: non mollare un colpo.
Comunque, dicevamo. Un articolo di Seth Godin non può mancare in una lista di articoli da leggere per trovare nuove idee di marketing, allora mi sono messo a spulciare sul mio Pinboard dove archivio le cose notevoli lette in giro, e ho trovato questo articolo qui. Si chiama: The pricing formula (S&S) e parla di pricing, cioè di come si da il prezzo a un prodotto.
Le due «S» del titolo stanno per «Substitutes» e «Story». Substitutes: ogni acquisto è una scelta. Si può scegliere di non comprare niente o di comprare qualcos’altro. Ogni prezzo è legittimato dal fatto di trovare qualcuno disposto a pagarlo. Story: il prezzo è posizionamento. Puoi vendere lo stesso prodotto a un prezzo molto alto o molto basso e raccontare due storie diverse. La cosa da non fare è vendere a un prezzo medio: lì non ci sono più storie da raccontare.
🤮 The Instagram Aesthetic Is Over
Proprio quando non ce la facevamo più ad aprire Instagram, quando le mani che toccano tazze di caffè, i flat lay ordinati, le colazioni con avocado, i filtri in colori naturali ma dalla grana ben visibile ci avevano ormai condotto alla nausea, ecco arrivare una buona notizia. Non siamo pazzi, tutto ciò che osserviamo lì dentro in effetti si somiglia, ma adesso è finita: l’estetica di Instagram sta morendo.
Le pose disarmoniche sono uno dei nuovi trend di Instagram, e questo articolo le contestualizza: perché si sono sviluppate, a cosa rispondono, chi le pubblica? Sembra che non ci siano buone ragioni per fotografarsi dal basso con il doppio mento ben in evidenza, ma ce ne sono un sacco e Taylor Lorenz le indica una a una.
La sentite questa boccata di aria fresca? Io sì, e non vedevo l’ora. Come dicevamo altrove però non bisogna scambiare questo nuovo trend di Instagram per spontaneità o ricerca del brutto: anche questa è una scelta, semplicemente va in una direzione diversa.
🔥 15 Months of fresh hell inside Facebook
Ci sono articoli che segnano un prima e un dopo all’interno del loro settore, questo articolo ne è un esempio; se ti occupi in qualche modo di Facebook (e di Instagram) non puoi prescindere dalla sua lettura: i quindici mesi di inferno dentro a Facebook descritti da Wired fanno il punto su cosa è successo nel 2018 a Facebook e contestualizzano molti fatti che mentre accadevano sembravano sconnessi, ma non lo erano.
Perché i fondatori di Instagram se ne sono andati, perché WhatsApp ha tardato a individuare il suo modello di business, quali sono i legami di Facebook con i repubblicani, perché le bufale hanno così rapida diffusione dentro a Facebook? Questo articolo mette i fatti in ordine e dà un quadro preciso e completo della blue app. Un quadro che era preferibile non avere, ma che ora c’è, quindi è meglio conoscere.
🐻 Want to be an artist? Watch Groundhog Day
Groundhog Day è quel film che in Italia si chiama Il giorno della marmotta dove c’è Bill Murray (❤️) che rivive sempre la stessa giornata. Austin Kleon (❤️) dice che la vita di un artista è la stessa cosa. Io dico che vale per tutti quelli che lavorano in proprio, anche se non fanno gli artisti: ogni giorno ti svegli, ti alzi, ti siedi al tuo tavolo, lavori, ricominci il giorno dopo.
Sembra un incubo? Lo è solo se speravi nell’exploit, la botta di culo che ti cambia la vita senza che tu abbia dovuto fare niente di particolare per meritartelo. Per chi ama davvero fare il suo lavoro – è più di un sogno, è un desiderio.
Building a body of work (or a life) is all about the slow accumulation of a day after day’s worth of effort over time. Writing a page each day doesn’t seem like much, but do it for 365 days and you have enough to fill a novel. You do it your whole life, and you have a career.
😴 While We Sleep, Our Mind Goes on an Amazing Journey
Questo fantastico articolo del National Geographic sulla scienza del sonno è davvero molto interessante, ma è anche una grossa scusa per parlare di una delle nostre più grandi passioni e del più efficace consiglio che abbiamo da darvi quando l’ispirazione scarseggia e le idee sono bloccate come un melone in un imbuto: dormire.
Raga, davvero: quando uno non ce la fa più l’unica cosa da fare è dormire. Lo dice anche la mia amata Ursula K. LeGuin nel super meraviglioso The Left Hand of Darkenss: «When action grows unprofitable, gather information; when information grows unprofitable, sleep». Eccezionalmente traduco: «Quando agire si fa via via più infruttuoso raccogli informazioni; quando raccogliere informazioni si fa via via più infruttuoso, dormi».
I libri di marketing sono roba per imbruttiti, lasciali perdere. Se sei senza idee invece leggi questa roba qui
🐉 Micheal Ende, «La storia infinita»
La copertina di La Storia Infinita, di Michael Ende.
Ho scaricato l’app Kindle su iPhone e comprato La Storia Infinita quando mi sono accorto di non avere manco un libro a tenermi compagnia in una giornata fatta di attese in ospedale. Tutto mi aspettavo, tranne di imparare qualcosa sul mio lavoro.
Se hai visto il film la prima metà del libro non contiene particolari sorprese. Dalla seconda metà inizia il bello: leoni di fuoco, città d’argento, streghe seducenti e carovane di cavalieri. La Fantàsia della Storia Infinita è un mondo fatto di opposti che si tengono insieme. E la lezione sta qui: nel fatto che due cose contrarie possono convivere.
Come quella volta in cui Bastiano è deciso a essere riconosciuto come benefattore e fa un gesto assolutamente positivo, trasforma degli esseri miserabili in creature felici:
«Questo lo farò volentieri, state sicuri, povere creature!» esclamò Bastiano. «Ora desidero che vi addormentiate e quando domattina vi sveglierete, striscerete fuori del vostro involucro e sarete diventate delle farfalle. Dovete diventare allegri e variopinti e non far altro che ridere e divertirvi! Da domani in poi non vi chiamerete più Acharai, i Perpetui Piangenti, ma Uzzolini, i Sempre Ridenti.»
Sembra un lieto fine, no? Peccato che non c’è mai nulla di assolutamente positivo (o negativo), non c’è niente che va in una direzione sola. «Nell’esercizio di una forza sono sempre coinvolti due corpi», quindi se agisci in un senso stai contemporaneamente producendo un effetto anche nel senso opposto. Così viene fuori che essere farfalle sempre ridenti non è poi davvero vantaggioso – ve lo ricorderete se avete letto il libro fino alla fine.
Cosa c’entra questo con il mio lavoro? Niente, viene da pensare, eppure tutto. A cominciare dall’enorme fatica di tenere in conto la complessità in ogni azione, ragionamento, dichiarazione. Specie quando sono azioni ragionamenti e dichiarazioni assolute. Tutti i «mai» che diciamo nello svolgimento del nostro lavoro hanno dei «sempre» che gli rispondono. Tutte le volte che viene da tagliare le cose con l’accetta, da semplificare, da preferire una visione bidimensionale bisogna ricordarsi che non si può prescindere dalla complessità, anche quando sembra evidente che una cosa sia meglio di un’altra. Sì, essere farfalle nell’immediato è meglio rispetto a essere vermi, ma lo è poi veramente?
⛱️ Jason Fried & David Heinemeir Hansson, «Rework»
La copertina di Rework, di Jason Fried e David Heinemeir Hansson
Ho un debole da anni per Jason Fried e David Heinemeir Hansson, quelli di Basecamp. Ho così tanto un debole per loro che a un certo punto ho iniziato a usare Basecamp anche se non ne avevo davvero bisogno, sarebbe bastato un foglio e una biro.
Quando parlo di loro sono estremamente parziale perché mi piace davvero tutto quello che fanno, come lo fanno e perché lo fanno: tipo questa pagina con le YAQ. Non le FAQ, le YAQ, perché la risposta a tutte le domande è Yes.
Leggo il loro blog religiosamente da quando ho iniziato a lavorare in proprio – anzi, forse da prima – e Rework è un po’ il riassunto del loro blog, di anni di cose pensate, scritte, dette e ascoltate. Tipo questa, ad esempio, quando parlano di concorrenza:
Focus on yourself instead. What’s going on in there is way more important than what’s going on out there. When you spend time worrying about someone else, you can’t spend that time improving yourself.
🌏 Victor Papenek, «Design for the real world. Human Ecology and Social Change»
La copertina di Design for the Real World. Human Ecology and Social Change di Victor Papenek.
Com’è che sono finito a leggere e rileggere questo libro? Probabilmente grazie a questo discorso di Mike Monteiro: How Designers Destroyed the World. È un libro denso, complesso, a volte difficile, a volte terrificante, in cui nemmeno una parola è sprecata, lì per caso. Un libro che fa giri lunghissimi e inspiegabilmente allo stesso tempo va subito dritto al punto. Il libro che mi ha insegnato la responsabilità che ho verso le conseguenze del mio lavoro.
Papenek è un designer in senso classico: un industrial designer. In uno dei passaggi più noti del libro scrive: «There are professions more harmful than industrial design, but only a very few of them». Ci sono professioni più dannose del design industriale, ma sono davvero pochissime». E poi continua:
«Today, industrial design has put murder on a mass-production basis. By designing criminally unsafe automobiles that kill or maim nearly one million people around the world each year, by creating whole new species of permanent garbage to clutter up the landscape, and by choosing materials and processes that pollute the air we breathe, designers have become a dangerous breed. And the skills needed in these activities are taught carefully to young people».
Qual è l’impatto ambientale, economico e sociale di un milione di avocado toast fotografati al minuto? A un capo ci siamo noi che vogliamo cibo popolare da fotografare e condividere per ottenere approvazione. All’altro capo ci sono le conseguenze della popolarità degli avocado toast: deforestazione, sfruttamento, coinvolgimento della criminalità organizzata. Le conseguenze del nostro lavoro non ci toccano direttamente e non si manifestano immediatamente, ma questo non le rende meno reali.
83 raccolte, 540 video, 2 nuovi contenuti ogni mese, 1 webinar per dubbi e domande ogni mese, workshop in classe per gli abbonati, risorse, materiali, esercizi.
Ti abboni per un mese o per un anno, accedi a tutti i contenuti e a tutte le risorse, cancelli quando vuoi.
Ti mandiamo: due consigli di marketing ogni domenica mattina, i post del blog il giovedì, le nuove raccolte man mano che escono, gli sconti quando li facciamo.